di Davide Ferri
Curatore
di Davide Ferri
Curatore

Il racconto della Collezione Verzocchi procede idealmente lungo due fili conduttori, come abbiamo evidenziato durante diverse edizioni di Ipercorpo, in cui la collezione era sfondo e contraltare storico di alcune riflessioni, e di alcune mostre interne al festival, sul tema del lavoro oggi.
Il primo: la collezione racconta, in forma concisa, lo stato della pittura italiana del secondo dopoguerra; è uno sguardo a volo d’uccello da una posizione eccentrica, quella di un outsider quale Giuseppe Verzocchi era, e per questo, da diversi punti di vista, molto attendibile. Il suo valore, dunque, non consiste tanto nell’esaustività ma nella capacità di riassumere, in modo abbastanza compatto, un momento articolato e contrastato, e proprio per questo di fondamentale importanza, della storia della pittura italiana del XX secolo, sospesa tra le due grandi vie dell’astrazione e della figurazione e alle prese, in alcuni casi, con un tentativo di sintesi tra questi due ambiti di ricerca.
Il secondo filo conduttore ha invece a che fare con il suo valore di documento storico, di semplice racconto del lavoro, con una galleria di figure che insieme compongono il ritratto di un’Italia che non c’è più, un Paese di pescatori, contadini, sarte, merlettaie, mondine, fabbri… che si muovono in un paesaggio agreste, semi urbanizzato, in costruzione. Qui forse risiede la ricchezza più grande della collezione Verzocchi, il suo potenziale narrativo, ancora tutto da esplorare. Attraverso quali figure si dispiega dunque il racconto della collezione Verzocchi? Quali lavoratori passano sotto gli occhi dei visitatori?
Abbiamo provato a contarli: in tantissime immagini, circa una quindicina, viene descritto il lavoro nei campi – con mietitori, braccianti e zappatori, o con visioni larghe su campi arati – segno di un’Italia ancora radicalmente ancorata alla sua tradizione contadina. In altrettante immagini, invece, vengono celebrati lo slancio e il ritmo di un nascente sviluppo industriale, e l’idea delle città che vanno espandendosi (dunque: costruttori e muratori, architetti, edifici in costruzione e macchine in movimento). Ci sono poi molte immagini che documentano la condizione del lavoro femminile – con figure di cucitrici, rammendatrici, o lavoratrici dei campi che convivono con visioni leggermente più aggiornate, come quella delle decoratrici e indossatrici) e altrettante immagini dal carattere più intimo e domestico, talvolta lirico e autoriflessivo, come quelle che raccontano la vita degli artisti nello studio, uno studio che in molti dipinti appare come una specie di oasi felice, di torre d’avorio in opposizione al fuori, ai contrasti di un mondo che sta subendo gli effetti di un accelerato sviluppo.
La proposta di questo blog/magazine è quella di dispiegare questi due fili conduttori attraverso la voce di alcuni artisti, storici dell’arte, scrittori, teorici di diverse discipline, ma anche musicisti, attori e registi teatrali e cinematografici… In un documento video di qualche minuto ogni invitato prova a narrare un dipinto della collezione che lui stesso ha scelto/individuato in base alla sua sensibilità e interessi, stabilendo un rapporto 1:1 con un’immagine che può aprirsi anche a riflessioni sul presente e sul proprio lavoro.
C’è poi una seconda suggestione alla base di un’altra tipologia di interventi che il blog ospita. Abbiamo immaginato spesso come si comporrebbe oggi, a distanza di circa settant’anni, una collezione di opere di artisti trenta-quarantenni-cinquantenni che parlano di lavoro. Sarebbe possibile ipotizzare uno sviluppo della collezione Verzocchi facendo i conti con uno scarto temporale così ampio? E sarebbe possibile tradurre le immagini del lavoro di oggi in una galleria di semplici figure?
Abbiamo invitato alcuni artisti visivi a intervenire sul blog attraverso un contributo che va interpretato come una piccola opera “site specific” che rilanci la sollecitazione di dare forma/vita a immagini e parole che rappresentano il lavoro del presente e le urgenze che sostengono il lavoro dell’artista.
Davide Ferri